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Firenze: viaggio nelle baraccopoli dell'ex mobilificio andato in fumo, tra degrado e disperazione

I vigili del fuoco stanno lavorando alla bonifica, mentre "gli sfollati" cercano di rientrare

Firenze: viaggio nelle baraccopoli dell'ex mobilificio andato in fumo, tra degrado e disperazione
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A cinque giorni dal rogo, l'ex mobilificio Becagli a Firenze è uno spettro, ricoperto da montagne di rifiuti e segnato dall'attesa dei suoi occupanti di ritornare a casa. Già, perché la struttura di via Fanfani, ormai abbandonata da una decina di anni, è diventata la casa di tre comunità: rom, rumeni e africani. Vivevano lì prima dello scorso 14 luglio 2023, quando le fiamme hanno mangiato gli oltre 1300 metri quadrati di cemento.

Siamo ritornati in quello che sembra un piccolo quartiere di stenti, fatto di baraccopoli e di panni stesi all'aria. Di pentole e fornetti abbandonati in fretta e furia per mettersi in salvo.

Nell'aria c'è ancora l'odore acre del fumo, che si appiccica sulla pelle e ti taglia la gola. Accanto al cancello c'è una distesa di materassi. Sono "gli sfollati" di questo micro cosmo, che stazionano in attesa che i vigili del fuoco terminino le operazioni di bonifica.

Una lotta tra disperati

C'è chi trascina sui marciapiedi il materasso, chi cerca di farsi largo tra la comunità rom, che ha occupato i posti all'ombra sotto gli alberi.

Gli animi si surriscaldano alla vista del cellulare e delle riprese.

«Fai le riprese di là», urla uno di loro, indicando la fabbrica dismessa. «Non prendere noi». A calmarli ci pensa la Polizia.

«Io sto calma - dice Dina, con in mano un sacchetto - Voglio vivere. In Romania ho mia figlia che mi aspetta».

Intanto, lo sguardo si allunga verso il via vai dei mezzi dei vigili del fuoco, che da ormai 48 ore stanno lavorando tra i cumuli di rifiuti.

Il nostro viaggio tra le baraccopoli

Ci siamo addentrati anche noi in quelle baracche improvvisate, ricoperte di plastica e amianto.

Alcune delle porte sono chiuse con il lucchetto. Altre sono andate ormai in fumo. Accanto ci sono piccoli resedi di spazzatura dove un filo tiene a stento i panni stesi. Lenzuola, camicie, coperte. Segni di vita quotidiana mista a disperazione. C'è chi la chiama sopravvivenza, chi ha trovato qui il rifugio perfetto dagli occhi del mondo. Lontano da quelli che li chiamano "zingari" o "negri".

I panni ancora stesi

 

Sono una trentina le persone che vivevano qui e che adesso aspettano di rientrare. Di riappropriarsi degli effetti personali, delle pentole in quella che sembra una cucina a cielo aperto improvvisata, con tanto di microonde su un ripiano di legno. Poco sotto le teglie e una grossa pentola. Poi ci sono le poltrone, un tavolo, con sopra le lattine di birra, una bottiglia d'acqua.

Intorno, il fumo ha dipinto di nero le macerie. Finestre, materassi, tappeti, mobili. Una discarica. Adesso il futuro resta un'incognita.

Da una parte ci sono i residenti, che si auspicano che tutta la zona venga bonificata e che ci sia uno sgombero forzato. Dall'altra, ci sono le trenta persone, tra cui alcune famiglie senza bambini, che qui hanno costruito la loro normalità.

Una lotta tra povertà e disperazione, come più volte detto in queste righe, che urge di una soluzione. E non più di cecità, come successo negli ultimi dieci anni.

Di Edlira Mamutaj 

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