Figlio di un partigiano di Signa ora combatte contro l'Isis
L'articolo era uscito su BISENZIOSETTE del 19 febbraio 2016, esattamente tre anni fa.
Karim Franceschi ha 29 anni, nato a Casablanca da madre marocchina e padre italiano e ha deciso di andare a Kobane a combattere l’Isis. Ha raccontato la sua esperienza nel libro pubblicato dalla Rizzoli «Il Combattente» dove parla molto del padre Primo Franceschi, nato a Signa nel 1927. Karim è convinto che la battaglia control’Isis riguarda tutti.
Figlio di un partigiano di Signa ora combatte contro l'Isis
«L’Italia è la nostra patria, la mia e la tua, bischero! E amare la patria significa anche combattere nel momento del pericolo».
Sono questi i valori che Karim Franceschi ha ereditato da suo padre Primo, classe 1927, originario di Signa e partigiano a 17 anni. Karim quei valori li ha nel Dna e lo ha dimostrato quando nel gennaio del 2015 ha deciso di raggiungere la città di Kobane in Siria e unirsi alla milizia volontaria dell’Ypg (unità di protezione del popolo) per combattere l’avanzata dell’Isis.
Una storia che ha deciso di raccontare nel suo libro «Il combattente». Storia dell’italiano che ha difeso Kobane dall’Isis», edito dalla Bur della Rizzoli, dove racconta le sue origini, la sua vita e i motivi che lo hanno spinto a combattere per la democrazia.
Karim lei è figlio di un italiano e di una donna marocchina e, come scrive nel libro, è nato, ha vissuto a Casablanca e poi in Italia. Ci racconta la sua storia?
«I miei genitori si sono coscosciuti a Casablanca. Mio padre è di Signa e non ho mai saputo per quale motivo fosse finito in Marocco, so solo che l’oriente lo aveva sempre affascinato. Mia mamma ha avuto una figlia a sedici anni da un uomo che poi le ha abbandonate. Nell’89 essere una madre single in Marocco era uno scandalo.
Ha conosciuto mio padre che, oltre a sposarla, ha adottato anche sua figlia. Da Casablanca, quando ero piccolo, ci siamo trasferiti a Marrakech dove mi chiamavano il figlio dell’italiano con un tono di disprezzo. Quando avevo nove abbiamo lasciato il Marocco per raggiungere Senigallia dove lavorava una zia di mia madre. Mio padre Primo si era ammalato di cancro e aveva bisogno di cure adeguate. Dopo poco tempo è morto ed è stata mia madre a occuparsi di me».
Lei, nel libro, parla molto di suo padre, partigiano e punto di riferimento importante per la sua formazione e le sue scelte ma che tipo era?
«Era molto affettuoso e presente. Ho dei bei ricordi di lui.
Amava il gioco d’azzardo e non ho mai capito che lavoro facesse, sicuramente aveva cambiato diverse attività. Credo che, quando arrivò in Marocco lavorasse come cuoco in un ristorante.
Mi parlava spesso di Signa, il suo paese natio, dove aveva una figlia e al quale era rimasto profondamente legato.
Era un uomo buono e di spirito. Frequentava un gruppo di italiani e non ha mai imparato una parola d’ arabo. Per poter sposare mia madre si era dovuto convertire all’Islam ma era solo una messinscena per aggirare la legge marocchina. Nel frigo non mancava mai il salame e il prosciutto che mi faceva mangiare di nascosto da mia madre e non c’era pasto che non bevesse un bicchiere di vino. Era partigiano e mi parlava spesso di quando lasciò la sua famiglia per unirsi alle squadre di azione patriottica. Poco tempo fa mi ha contattato un esponente dell’Anpi di Signa per dirmi che aveva letto il mio libro e che aveva fatto delle ricerche su mio padre. Era riuscito trovare degli scritti di un partigiano che aveva conosciuto mio padre e mi ha letto alcuni passaggi dove raccontava di averlo visto sparare dalle trincee. Devo dire che mi sono commosso».
Karim quando e perchè ha deciso di partire per la Siria?
«Dopo che ho preso parte alla carovana umanitaria Rojava calling dove ho visto le sofferenze dei curdi. E’ stato lì che mi sono reso conto che il mio ruolo doveva essere un altro: combattere contro l’Isis.
Sapevo che le probabilità di morire erano alte ma la spinta alla vita era troppo forte. Se non avessi combattuto la mia identità sarebbe stata compromessa per sempre. La guerra civile in Siria è l’unico territorio dove si combatte per portare avanti un’idea laica. Il confine fra noi e l’Isis era sottilissimo. Una linea sottile che divideva donne con il burqua che imbracciavano il fucile contro donne che combattevano con i capelli sciolti. Due mondi contrapposti dove le donne sono la metà dei combattenti».
Era l’unico italiano a combattare a Kobane?
«Quando la città era sotto assedio di stranieri c’eravamo soltanto io e un americano a combattere, dopo la liberazione sono arrivati altri due italiani. Marcello è il nome che ho scelto per combattere. Era il nome che mio padre mi voleva dare alla nascita ma poi per accontentare mia madre ha accettato di chiamarmi Karim.
Ho avuto pochi giorni di addestramento. In breve tempo sono passato da semplice combattente a membro di un commando, fino a fare parte di una squadra di cecchini».
E’ difficile trovare giovani che, come lei, decidono di combattere per difendere un ideale. La sua, in un’epoca in cui l’individualismo impera, appare una scelta incomprensibile.
«Combattere non è mai uno strumento, non è mai un fine. Io ho sempre avuto ben chiaro il motivo per cui combattere, i valori da difendere che poi sono quelli della costituzione italiana che porto con me.
La battaglia contro l’Isis non riguarda un popolo perché è un dovere, rappresenta una battaglia dell’umanità.
Basti pensare che chiunque la pensi diversamente da loro è un obbiettivo, quindi questa guerra coinvolge tutti e la si vince soltanto sostenendo i popoli che vivono in questi territori perché devono essere loro a sconfiggere l’Isis che sicuramente ha più mezzi ma con il supporto internazionale può essere sconfitta».
Quando ha deciso di partire per Siria cosa ha detto a sua madre?
«Le ho detto che non sarei andato a combattere ma come tutte le mamme non era d’accordo ma quando sono tornato mi ha detto che era fiera di me».
Che idea si è fatto dell’Isis e cosa pensa di fare?
«E’ una situazione molto complessa. In alcune città europee come l’Inghilterra ci sono quartieri interi che sostengono l’Isis e con la tecnologia non si riesce a frenare la loro propaganda.
Adesso, attraverso messaggi propagandistici, puntano alla Libia che è molto vicina all’Italia. Penso che sia finito il tempo di prendere le armi, ora bisogna combattere la propaganda dell’Isis e per farlo servono altri mezzi in nome della libertà e della democrazia».
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